Predella n. 25, giugno 2009
La decisione della Soprintendente di Brera, Sandrina Bandera, di richiedere all’Accademia Raffaello di Urbino di restituire subito la pala di Giovanni Santi (fig. 1), padre di Raffaello, ivi in deposito da un quarantennio, ha suscitato polemiche. Ma, soprattutto, ha sollevato o scoperchiato, non volendolo, una questione tanto grande quanto delicata. L’opera di Giovanni Santi fu infatti dipinta a Urbino e per Urbino, ma entrò nell’enorme lotto di opere d’arte (oltre un migliaio) che il vicerè d’Italia, Eugenio di Beauharnais, fece deportare a Milano dalle ex Legazioni pontificie, in specie dalle Marche, per fare di Milano ciò che il patrigno Napoleone stava cercando di fare di Parigi, cioè il “luogo eletto delle arti”. Con opere razziate soprattutto nel Centro Italia. Operazione contro la quale, nel 1796 e dalla prigione, aveva già scritto, nelle Lettres à Miranda (era il generale incaricato della depredazione), memorabili parole di fuoco uno dei più grandi teorici della tutela del “contesto” storico-artistico, e cioè il parigino Antoine Chrisostôme Quatremère de Quincy. Grande amico di Canova e collaboratore delle prime leggi pontificie sulla tutela, il chirografo di Pio VII di Carlo Fea e il successivo editto del cardinal Bartolomeo Pacca. Come comprovano i penetranti studi di Antonio Pinelli e del sapiente Edouard Pommier.