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Home Indice e rubriche In mostra Bologna: le Madonne di Vitale tra splendore e devozione

Bologna: le Madonne di Vitale tra splendore e devozione

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di Giacomo Alberto Calogero e Paolo Cova

ABSTRACT: The exhibition Le Madonne di Vitale. Pittura e devozione a Bologna nel Trecento took place in the Museo Civico Medievale in Bologna (Italy) from November 20, 2010 to February 20, 2011. The show brought together almost all the paintings that represent the Virgin with the Child attributed to Vitale degli Aymo degli Equi. In spite of its strictly thematic approach, the small exhibit curated by Massimo Medica highlighted – through a coherent display, enriched by splendid French ivories and important miniatures of the local school – some fundamental aspects of the career of this central figure in XIIIth century Bologna. 

 

Nel mare magnum di esposizioni che caratterizza la nostra contemporaneità, epoca di imperitura recessione economica, di strampalata autarchia culturale e di efferato “mostrismo”, la difficoltà più grande delle istituzioni è quella di progettare e realizzare eventi di successo, mantenendo un solido approccio scientifico, un certo richiamo per il pubblico e una scarsa incidenza sui bilanci. Va da sé che questa sorta di miracolo, spesso forzatamente suggerito a curatori ed a direttori di musei dai finanziatori degli eventi, raramente riesce e più spesso ci troviamo a fare i conti con mostre dalle dimensioni eclatanti e dai budget plurimilionari, ma dall’utilità scientifica per lo meno discutibile, oppure con esposizioni scientificamente ineccepibili, ma che difficilmente colpiscono l’interesse del grande pubblico.

Invero, in una realtà come quella italiana, nella quale per svariati motivi le sponsorizzazioni private nel settore scarseggiano, le istituzioni pubbliche si trovano spesso di fronte a dubbi amletici: o ridurre la propria attività (idea eretica per l’establishment politico), o parcellizzarla in una pluralità di microeventi low cost, oppure risparmiare sui costi ordinari (che comprendono anche le spese per la conservazione); per tale motivo, diventa quasi obbligatorio concentrarsi, facendo leva quasi esclusivamente sulle proprie forze, solo su poche esposizioni altamente significative. Le risorse culturali del personale e la qualità delle raccolte civiche certo non mancano e così si riesce ancora a costruire piccole e preziose mostre, contemporaneamente capaci di stimolare il pubblico interesse, di rispettare l’economicità imposta, e magari di accrescere gli studi specialistici.

Ospiti, l’iniziativa dei Musei Civici d’Arte del Comune di Bologna creata da Eugenio Riccomini nel 1997, nacque proprio sotto questo segno: le mostre ideate si proponevano di portare all’attenzione del pubblico opere che per svariate ragioni, sia storiche che scientifiche, fossero in grado di suscitare un certo grado di interesse.

In questi ultimi anni, tale idea, grazie agli sforzi di Massimo Medica e del suo staff, è cresciuta e si è in parte modificata, adattandosi alle esigenze museografiche contingenti: si è così formalizzato un piccolo modello di esposizione, autarchica, economica, raffinata e popolare, ma soprattutto capace di costruire un dialogo continuo tra gli studiosi, il pubblico e le collezioni dei musei.

La complessa situazione politica generata dal commissariamento del Comune di Bologna e dal crollo dei budget museali, causato anche, ma non solo, alla drastica riduzione dei contributi ordinari agli enti locali nella Finanziaria 2010, hanno imposto un ulteriore giro di vite. È in tale difficile contesto che è nata la ventunesima edizione di Ospiti, dal titolo Le Madonne di Vitale. Pittura e devozione a Bologna nel Trecento.

1 allestimento mostra vitale 2 vitale madonna del ricamo 3 vitale san pietro o san clemente papa 4 vitale madonna di viterbo 5 vitale madonna poldi pezzoli

Nella tradizionale cornice espositiva a fianco del lapidario, attraverso un andamento invero abbastanza scontato, si esplica la linea concettuale di un allestimento curato con estrema semplicità (fig. 1), che emerge però in tutto il suo incanto in pochi ma studiati colpi di scena, come l’affascinante illuminazione della tavoletta del Poldi Pezzoli. I nuclei nei quali si articola Le Madonne di Vitale sono sostanzialmente cinque, tutti incardinati rispettivamente su un novero di opere d’arte che permettono proprio di introdurre una doverosa polifonia critica sulla produzione del pittore bolognese. Ad essi va aggiunta una piccola sezione composta da splendidi avori francesi della collezione del Museo Civico Medievale. L’idea è quella di presentare all’attenzione del pubblico una delle tipologie di oggetti portatili più apprezzati nell’entourage del cardinal legato Bertrand du Pouget, inviato a Bologna da papa Giovanni XXII tra il 1327 e il 1334. Il legato era infatti accompagnato da una vasta corte di alti prelati, abituati alle delicatezze e al gusto prezioso della corte avignonese e gli avori, raffinatissimi prodotti delle botteghe degli ivoiriers francesi, dovettero avere in città un ruolo rilevante nella diffusione delle eleganti cadenze del gotico d’oltralpe.

La chiosa dell’esposizione è affidata ad una ridotta serie di codici miniati: l’intento è quello di sottolineare il rapporto tra la pittura di Vitale e la produzione miniatoria locale tra il secondo e il terzo quarto del XIV secolo. La Matricola della Società dei Merciai del 1328 è stata volutamente esposta per esemplificare quel dialogo intenso tra i maestri locali e la koiné artistica internazionale giunta al seguito di Bertrando: la Vergine con il Bambino è infatti un precoce pastiche di spazialità giottesca e soffuse fascinazioni gotiche. Nel Lezionario proveniente dal complesso femminile domenicano di Santa Maria Maddalena in Val di Pietra e negli Statuti della Società dei Merciai del 1360, entrambi miniati da Niccolò di Giacomo, emerge quel naturalismo composto e quella matura trattazione spaziale che si caratterizzano come sostanziali rivisitazioni delle soluzioni vitalesche dei decenni precedenti. Proprio la miniatura, come testimonia l’"Antifonario dei Santi” prossimo alla facies formale del Maestro del 1346, appare così un’arte permeata da quella commistione di dolcezza e preziosità, che come nel caso del lettore Martino da Cento appagava le richieste di committenti esigenti ed altolocati.

L’intento precipuo della mostra era però quello di radunare per la prima volta tutte le tavole raffiguranti il tema della Madonna col Bambino attribuite al grande protagonista del Trecento bolognese Vitale di Aymo degli Equi: ambizione parzialmente frustrata dall’assenza della Madonna Gold, attualmente in collezione privata, e della Madonna dei Battuti Bianchi della Pinacoteca Vaticana. A compensare l’incolpevole lacuna presenziava però il prezioso lacerto murale riscoperto nel 1978 all’interno dell’oratorio del Nome di Maria di Villa Borra, antica dimora rurale in località Predalbino, già di proprietà della famiglia Beccadelli. Si tratta della nota Madonna del ricamo (fig. 2), dipinta in origine sul pilastro sinistro della cappella maggiore della basilica di San Francesco a Bologna. La critica ha discusso a lungo sulla cronologia del dipinto, caratterizzato da un’innegabile complessità tecnica e dalla rara iconografia della Madonna operosa, tema di schietta matrice bizantina, presto rielaborato in ambito tosco-emiliano, attraverso la probabile mediazione dell’ordine francescano. Se così fosse, non sarebbe un caso che Vitale dipingesse questo inusuale soggetto proprio per la chiesa bolognese dei Frati Minori, per la quale risulta più volte attivo nel corso del quarto decennio. Gli stringenti rapporti fra la Madonna del ricamo e il grande frammento murale col Cenacolo, anch’esso proveniente dallo stesso complesso e unanimemente collegato dalla critica all’attività giovanile di Vitale, hanno spinto Rosa D’Amico (1986) a sostenere una datazione assai precoce anche per il frammento murale, oggi appartenente alla collezione della Fondazione Cassa di Risparmio di Bologna. La preziosa presenza della Madonna del ricamo ha dunque permesso di evocare la primissima fase del pittore, ancora strettamente legata ai modelli riminesi.

A testimonianza degli stretti rapporti intercorrenti fra Rimini e Bologna, che ben lungi dall’essere a senso unico dovettero piuttosto essere caratterizzati da una fruttuosa reciprocità fra i due centri, restano alcuni frammenti del grande ciclo con le Storie di Cristo e di san Francesco realizzato, proprio per il complesso dei Frati Minori di Bologna, da Francesco da Rimini. L’innegabile accostamento ai modi della scuola riminese non impedisce però di rilevare come già a partire da queste prime opere Vitale esibisca un linguaggio più schiettamente gotico, in perfetta consonanza con le più tipiche espressioni dell’arte bolognese del quarto decennio.

Si tratta di anni decisivi, in cui un’eccezionale congiuntura politica, legata al lungo soggiorno del cardinal legato francese Bertrand du Pouget e del suo numeroso seguito, contribuì a intensificare la già forte circolazione in città di manufatti artistici transalpini. Nel lussuoso cantiere del castello di Porta Galliera, voluto dallo stesso Bertrando, furono inoltre coinvolti artisti forestieri del calibro di Giotto e Giovanni di Balduccio: si trattò di un episodio di capitale importanza che consentì all’ormai maturo milieu bolognese di confrontarsi con alcuni dei massimi rappresentati della più moderna e cosmopolita cultura artistica europea e che certo contribuì a sollecitare, insieme ad altri fattori, quell’evidente accelerazione in senso gotico che si riscontra nella produzione degli artisti locali fin dagli ultimi anni del terzo decennio.

Ciò che più sorprende è proprio la rapidità con cui l’ambiente autoctono reagì al mutato clima cittadino, sviluppando una pluralità di voci autonome e originali, ma capaci di esprimere nel complesso un linguaggio coerente e specificatamente locale. Rimane però impresa assai ardua, che ha già suscitato in passato sfortunati equivoci, tentare di stabilire precise priorità tra le personalità che caratterizzano questo delicato snodo dell’arte felsinea. Confutato ormai da tempo il noto paradigma longhiano che assegnava a Vitale il ruolo di caposcuola del Trecento bolognese, non sussistono prove decisive nemmeno per sostenere, come faceva Volpe, che questo ruolo vada attribuito a quell’affascinante quanto sfuggente «cavaliere nero della pittura padana» che realizzò nel 1333 il monumentale trittico del Louvre. Nonostante la data iscritta sul retro della tavola parigina attesti l’inequivocabile precocità del suo anonimo autore, nulla certifica infatti che egli sia il solitario innovatore dell’arte locale. Negli stessi anni il Maestro della Crocifissione Campana, già attivo nel terzo decennio, realizza la Croce per la chiesa di San Giovanni in Monte, in cui si esprime un fare aspro e patetico che rivela la repentina adesione di questo artefice al nuovo corso della scuola bolognese. Un percorso parallelo è intrapreso dal Maestro dei Polittici di Bologna, alter ego popolaresco del più raffinato autore della Crocifissione conservata al Petit Palais di Avignone. I tre splendidi dossali della Pinacoteca di Bologna, eseguiti nel corso degli anni Trenta, sembrano anzi incarnare le ragioni più peculiari della cultura figurativa locale, in perfetta consentaneità, per quanto riguarda la robusta e sapida vena narrativa, con i coevi esiti del Maestro del 1328 e, soprattutto, dell’Illustratore.

Si tratta di questioni complesse, che rimangono del tutto aperte e il cui approfondimento non era certo compito della piccola mostra; ma è proprio in questo contesto, ancor oggi nebuloso, che sembra prendere le mosse la pittura del giovane Vitale, caratterizzata, fin dagli esordi, da una inesausta ricerca naturalistica, perseguita sia nella resa epidermica, che in quella delle più sottili sfumature sentimentali. Dati di stile che si riscontrano anche in un dipinto giovanile come la Madonna del ricamo, nel quale alla tenera pastosità degli incarnati sembra corrispondere un inedito e umanissimo legame affettivo fra la Vergine e il Bambino. Rimane assai stimolante, a nostro avviso, la notazione offerta a suo tempo da Robert Gibbs (1990), il quale riconosceva nella stesura geometrica delle forme che si intravede nella Madonna del ricamo, il segno di una precoce attenzione di Vitale nei confronti dei prestigiosi modelli realizzati dalla bottega giottesca per la corte del cardinal Bertrando. Quale peso attribuire, in tal caso, alla probabile mediazione di “Dalmasio”, unico tra i protagonisti del quarto decennio bolognese a sperimentare una felice sintesi fra il severo dettato giottesco e le più svagate cadenze nordiche, costituisce un capitolo critico ancora tutto da scrivere.

Il taglio tematico imposto alla mostra impediva di seguire i successivi sviluppi dell’arte di Vitale, sempre più virata verso esacerbazioni via via più espressive e favolose, culminanti nello sfrenato coro angelico che circonda il Presepe di Mezzaratta. Si giunge così agli anni quaranta, decennio in cui Vitale appare ormai il dominatore incontrastato della pittura bolognese e capace, anche grazie ad una organizzazione della bottega innovativa rispetto alle consuetudini lavorative fin lì adottate a Bologna, di ottenere prestigiose commissioni anche fuori dalle mura cittadine.

Proprio alla metà del quinto decennio cade un altro dipinto esposto in mostra, ossia la celeberrima Madonna dei denti, in cui il linguaggio del maestro, esauriti i più esasperati furori gotici, sembra ormai ricomporsi entro uno schema di indubbia matrice giottesca, comunque riletto alla luce di uno squisito decorativismo di marca schiettamente oltremontana. Accanto alla tavola del Museo Davia Bargellini presenziavano anche i due scomparti delle Collezioni Comunali d’Arte di Bologna. Nonostante il dato di stile esibito nei due laterali di polittico risulti assai prossimo a quello della Madonna dei denti, appare condivisibile la riserva mostrata dai curatori della mostra circa l’ipotesi che le tre tavole potessero in origine accorparsi in un unico complesso. Non è certo da escludere che la collocazione seicentesca dei tre dipinti nel medesimo oratorio extraurbano di Santa Apollonia, che non poteva comunque costituire il luogo di destinazione originario per manufatti di tale pregio e dimensione, possa essere un indizio di una loro comune provenienza; ciò non toglie che valutazioni di ordine strettamente materiale abbinate all’incisione della Madonna dei denti pubblicata da Seroux d’Angicourt nel 1825, opportunamente esposta in mostra, sembrano escludere l’ipotesi che la tavola del Bargellini potesse costituire lo scomparto centrale di un grande polittico in cui figuravano anche i due dipinti delle Collezioni Comunali. Nella trascrizione realizzata da D’Angicourt, coincidente a grandi linee con la descrizione del dipinto fornita nel 1678 da Carlo Cesare Malvasia, la Madonna appare infatti circondata da quattro santine, due delle quali furono rintracciate dalla Sandberg Vavalà (1929) nella collezione Lanckoronsky. Un’ipotetica ricostruzione che volesse assemblare in un unico organismo le due tavole delle Collezioni Comunali e la Madonna dei Denti, dovrebbe quindi tenere conto della presenza delle piccole figure che attorniavano quest’ultima e che, a quanto riferisce Malvasia, dovevano essere iscritte entro «quattro cappelle laterali»: si tratterebbe dunque di un formato inedito, di cui non esisterebbe alcun riscontro noto. Più problematica sembra invece la proposta d’identificare la figura benedicente raffigurata in uno dei due scomparti delle Collezioni Comunali (fig. 3), tradizionalmente riconosciuta come San Pietro, con San Clemente I, in virtù di un presunto rimando onomastico a papa Clemente VI, fautore del grande giubileo del 1350.

Di maggiore fascino appare il ragionamento svolto a proposito della bella Madonna di Viterbo (fig. 4). L’analisi ravvicinata del dipinto ha infatti suscitato più di un ragionevole dubbio sulla recente proposta di Schmidt (2005) relativa alla possibile identificazione del committente con il cardinale benedettino Guillame de Aigrefeuille. La foggia della veste dell’alto prelato rappresentato nella bellissima tavoletta reliquiario potrebbe infatti indirizzare verso l’ordine dei Frati Minori, motivo per cui in mostra si è preferito avanzare l’ipotesi che possa piuttosto trattarsi del cardinale francescano Pasteur de Sarrats. Quest’ultimo, tra il 1347 e il 1349, ricoprì il delicato ruolo di nunzio apostolico presso la corte di Francia, il che spiegherebbe più agilmente la presenza al suo fianco di san Luigi, ovvio riferimento alla corona francese, nonché santo protettore del Terzo Ordine di San Francesco.

Con la Madonna di Viterbo, generalmente datata intorno al 1350, si giunge dunque alle soglie del sesto decennio, l’ultimo della trentennale attività di Vitale. Il contatto diretto con l’arte veneziana, avvenuto con ogni probabilità nel corso dell’impegnativa trasferta friulana, e la manifesta conoscenza della più raffinata produzione avignonese sembrano ormai indirizzare il linguaggio del pittore verso esiti di elegante rarefazione, tutta giocata sull’esasperazione degli ornati e sulla sapiente interazione fra la tempera e il fondo dorato.

A questa fase tarda appartengono le più deliziose fra le Madonne licenziate da Vitale, come quella appartenuta al beato Marcolino da Forlì, purtroppo assai impoverita, quella di collezione privata già di proprietà Gold e la stupenda Madonna del Poldi Pezzoli (fig. 5). In questo delicato «fiore di serra», autentico preludio alla favola cortese del tardogotico settentrionale, l’inesauribile fantasia di Vitale è declinata nei termini di un prezioso decorativismo. Il tono fiabesco dell’immagine, reso comunque vivido dalla naturalezza con cui è espresso il tenero legame fra la madre e il figlio, trasse in inganno perfino Roberto Longhi, che vi leggeva l’atmosfera giocosa della «prima lezione di arte dei profumi» impartita a un «principino orientale». Gli studi successivi hanno chiarito invece come anche nel caso della Madonna del museo milanese Vitale torni a confrontarsi, a vent’anni di distanza dalla Madonna del ricamo, col raro tema della Vergine operosa. La scelta di affiancare i due dipinti offriva dunque al visitatore l’ultima intrigante suggestione suscitata dalla mostra: il riannodarsi di un sottilissimo filo all’interno del percorso di Vitale degli Equi, artefice sommo, che si conferma, oggi più che mai, uno dei più straordinari protagonisti del Trecento italiano.

 

 

 
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